Riconoscere un potenziale femminicida prima che sia troppo tardi

Riconoscere un potenziale femminicida prima che sia troppo tardi

Quante volte una donna deve sentirsi in pericolo prima che qualcuno riconosca ciò che sta vivendo? Cosa può fare la terapia online?

Il femminicidio non è mai un raptus. Non è un impeto improvviso, né un’esplosione di follia che irrompe senza preavviso.
Dietro ogni donna uccisa da un partner o un ex partner, c’è una storia che affonda le radici molto prima dell’ultimo gesto: una storia fatta di parole, di dinamiche, di squilibri emotivi, di paure che si sedimentano giorno dopo giorno. Una storia che raramente comincia con la violenza fisica. Inizia invece nelle crepe invisibili della relazione, in quei dettagli che sembrano banali ma che lentamente diventano catene.

La violenza letale nasce spesso nel silenzio:
nel tono di voce che non si può contraddire,
nel messaggio che “pretende” risposta immediata,
nel controllo che si camuffa da premura,
nel giudizio che si traveste da amore.

È fatta di piccole rinunce quotidiane: smettere di uscire con un’amica “per evitare discussioni”, evitare un vestito “per non farlo arrabbiare”, rinunciare a un progetto “per non sentirsi accusata di egoismo”.
Sono rinunce minime, singolarmente trascurabili, ma che nel tempo costruiscono una gabbia perfetta, invisibile ma impenetrabile.

La violenza non inizia con un colpo:
inizia quando la donna smette di sentirsi libera.
Quando, senza nemmeno accorgersene, comincia a vivere in funzione dell’umore dell’altro.
Quando si sveglia ogni giorno domandandosi cosa può dire, cosa può fare, chi può essere per evitare l’ennesimo conflitto.

Molte donne raccontano che all’inizio c’era solo “troppa attenzione”, “troppa gelosia”, “troppa passione”.
In realtà c’era troppo controllo.
C’era la richiesta di sapere sempre dove fossero.
C’era la critica costante verso le persone vicine, che lentamente le isolava.
C’era la svalutazione, fatta di battute, di insinuazioni, di confronti umilianti.
C’era la confusione emotiva: lui alternava momenti di rabbia a momenti di tenerezza, scuse e promesse che riaprivano spiragli di speranza.

Il ciclo della violenza si costruisce così: con un’altalena di tensione e finta calma.
La donna resta intrappolata nella speranza che vada meglio
, che sia davvero cambiato, che tutto quello che sente non sia reale o sia solo una fase.
Ma, intanto, la sua identità viene erosa: perde fiducia, perde energia, perde la capacità di vedere la relazione dall’esterno.

E mentre la sua voce interna si indebolisce, quella di lui diventa sempre più forte, più invadente, più autoritaria.

La violenza psicologica è la prima forma di violenza.
È subdola, non lascia lividi sulla pelle, ma li incide nell’anima.
E precede quasi sempre quella fisica.
Non perché la violenza fisica sia inevitabile, ma perché il controllo totale — emotivo, psicologico, economico — tende a crescere quando la donna inizia a reclamare autonomia, spazio, libertà.

In molte storie di femminicidio, la fase più pericolosa è proprio quella della separazione: quando la donna decide di andarsene, quando dice “basta”, quando prova a recuperare la sua indipendenza.
È lì che il partner violento vive il rifiuto come una minaccia al suo potere, come una ferita narcisistica insopportabile.
È lì che il pericolo aumenta in modo drammatico.

Ma prima della tragedia, i segnali ci sono quasi sempre.
A volte sono evidenti, altre volte nascosti dietro gesti all’apparenza innocui.
Non sono segnali che servono a “prevedere” con certezza ciò che accadrà — perché non esiste un profilo psicologico unico, non esiste un volto specifico della violenza.
Si tratta invece di dinamiche ricorrenti, di schemi relazionali che emergono con sorprendente somiglianza nelle storie di donne che hanno vissuto violenza grave o letale.

Riconoscerli significa dare un nome a ciò che spesso viene normalizzato.
Significa restituire alle donne la capacità di fidarsi della propria percezione.
Significa interrompere una narrativa che minimizza, giustifica, gioca al ribasso (“sono solo litigi”, “è solo un po’ geloso”, “tutti i partner controllano un po’”).

Sapere quali sono questi campanelli d’allarme può fare la differenza tra continuare a sopravvivere e cominciare a vivere davvero.
Può essere la scintilla che porta a chiedere aiuto.
Può essere la mano tesa verso chi non trova più la forza di parlarne.
Può, in alcuni casi, salvare una vita.

 

Obiettivo dell’articolo

L’obiettivo di questo articolo è offrire una guida chiara, approfondita e psicologicamente fondata per riconoscere i segnali precoci di una relazione potenzialmente pericolosa, rendendo visibili quelle dinamiche che spesso operano nel silenzio e nella normalizzazione.
Non per creare paura, non per etichettare, ma per potenziare la consapevolezza, dare strumenti concreti, incoraggiare il riconoscimento, la prevenzione e la richiesta di aiuto.
Comprendere questi segnali significa rompere il silenzio.
E rompere il silenzio, a volte, significa salvarsi.

 

I 5 segnali che non devono essere ignorati

 

  1. Quando l’amore diventa sorveglianza: il controllo totale sulla vita della donna

Il controllo non è amore. Non lo è mai, nemmeno quando si presenta con il volto rassicurante della “preoccupazione”, dell’attenzione affettuosa, della gelosia “normale”.
Il controllo è un muro che si costruisce lentamente, un gesto dopo l’altro, fino a trasformare la relazione in uno spazio dove la libertà della donna viene compressa, monitorata e infine annullata.
Il partner che esercita controllo non vuole sapere dove sei per sentirsi vicino: vuole sapere dove sei per assicurarsi che tu non sia altrove rispetto a lui, che non abbia autonomia, che non possa decidere liberamente, che non possa sfuggire alla sua sorveglianza emotiva.

Il controllo inizia quasi sempre in sordina.
Una domanda insistente: “Con chi sei?”
Un messaggio troppo frequente: “Quando torni?”
Un commento che sembra un complimento ma non lo è: “Quel vestito non ti valorizza, meglio se lo cambi.”
Poi, piano piano, si intensifica: pretende le password, vuole accedere al telefono, controlla gli accessi ai social, chiede spiegazioni per ogni like, per ogni chiamata, per ogni minuto di ritardo.
E quando la donna prova a difendere il proprio spazio, scattano accuse di infedeltà, sensi di colpa, litigi carichi di tensione: “Se non hai nulla da nascondere, perché non me lo fai vedere?”.

Il controllo è l’esatto contrario dell’amore: mentre l’amore amplia lo spazio dell’altro, il controllo lo restringe.

Ma esiste una forma di controllo ancora più subdola, più silenziosa, più devastante: il controllo economico.
La violenza economica è una delle armi più forti e meno riconosciute nelle relazioni abusive, perché non lascia lividi visibili e spesso non viene percepita come violenza fino a quando non diventa una prigione vera e propria.

Si manifesta in modi diversi, spesso travestiti da “buon senso”, da “organizzazione familiare”, da “ruoli tradizionali”:

  • Lui decide come vanno spesi i soldi della coppia, imponendo priorità che coincidono solo con i suoi desideri.
  • Impedisce alla partner di lavorare, con scuse che apparentemente “la proteggono”: “Hai già troppo da fare”, “Ci penso io, tu riposati”, “Quel lavoro non fa per te”.
  • Ostacola ogni tentativo di autonomia professionale, criticando le sue ambizioni, sminuendo i suoi talenti o provocando conflitti ogni volta che lei prova a costruirsi uno spazio indipendente.
  • Sequestra stipendi, carte, documenti, mettendo a suo nome ogni conto, ogni utenza, ogni risorsa.
  • Usa il denaro come ricatto emotivo: “Senza di me non puoi permettertelo”, “Dove vuoi andare senza soldi?”, “Se ti lascio, come fai a vivere?”.

Questa forma di violenza non solo limita la libertà quotidiana, ma mina la possibilità stessa della donna di lasciare la relazione.
Senza soldi, senza accesso alle proprie risorse, senza un lavoro o senza documenti, la fuga diventa quasi impossibile.
Il controllo economico crea dipendenza e immobilità, e questa condizione è una delle ragioni per cui molte donne rimangono in relazioni profondamente pericolose.

A livello psicologico, il controllo economico deriva da un bisogno patologico di dominio totale.
Per l’uomo violento, il potere non è mai sufficiente: non gli basta controllare il corpo della partner, i suoi movimenti, le sue relazioni.
Vuole controllare anche il suo futuro, le sue opportunità, i suoi strumenti di autonomia.
Vuole assicurarsi che senza di lui lei non possa andare da nessuna parte.

È una violenza che svuota lentamente la persona, la rende dipendente, la indebolisce.
E molto spesso rappresenta il primo passo verso l’isolamento e la violenza fisica perché, quando la donna perde la capacità di decidere per sé, perde anche la forza di difendere i propri limiti.

Il controllo — emotivo, psicologico, digitale, economico — è la radice di ogni forma di abuso.
Riconoscerlo significa accendere una luce in una stanza che fino a quel momento era stata mantenuta al buio.

 

  1. Quando la gelosia diventa gabbia: la trasformazione dell’amore in possesso

La gelosia non è una prova d’amore. Eppure, troppo spesso, viene romanticizzata, normalizzata, dipinta come segnale di passione o coinvolgimento emotivo.
La gelosia patologica, invece, è tutt’altro: è una crepa profonda nella relazione, un segnale d’allarme che non deve mai essere ignorato. Non si tratta di un “sei geloso perché ci tieni”, ma di una ossessione costante, di un sospetto che si insinua in ogni angolo della vita della partner e che trasforma anche le situazioni più innocue in potenziali minacce agli occhi dell’uomo.

La gelosia patologica è un radar sempre acceso, che interpreta ogni sguardo, ogni parola, ogni movimento, persino ogni silenzio, come prova di tradimento. È una forma di vigilanza continua che nasce dall’insicurezza profonda, dall’incapacità di tollerare l’autonomia dell’altro, dalla convinzione distorta che l’amore debba coincidere con il possesso totale.
Inizia in piccolo: un commento su un amico, un muso lungo dopo un messaggio arrivato “troppo tardi”, una domanda insistente su chi fosse presente in un luogo. Ma rapidamente può diventare un vortice.
E in questo vortice, la donna si ritrova a giustificare ogni gesto, ogni parola, ogni relazione.

La gelosia ossessiva si manifesta con frasi che non sono espressioni d’amore, ma segnali di dominio:
“Tu sei mia.”
“Senza di me non sei niente.”
“Se mi lasci finisce male.”
Queste non sono dichiarazioni romantiche: sono dichiarazioni di proprietà.
Sono promesse implicite — e a volte esplicite — di violenza.
Sono il linguaggio del controllo, non quello dell’affetto.

In una relazione sana, la gelosia viene gestita con comunicazione e rispetto dei confini.
Nella gelosia patologica, invece, la partner smette lentamente di essere una persona autonoma: diventa un’estensione dell’altro, una variabile da monitorare, qualcosa da possedere. La donna non viene più vista per chi è, ma per ciò che rappresenta: un oggetto prezioso da difendere da qualsiasi “minaccia”, reale o immaginaria.
Non è raro che l’uomo geloso inizi a restringere il campo visivo della donna: limita le sue uscite, critica gli amici, svaluta colleghi e conoscenti, insinua dubbi e sospetti, richiede totale trasparenza e totale devozione.

Questo tipo di gelosia è una trappola emotiva.
Più la donna tenta di rassicurare, più l’uomo intensifica il controllo.
Più lei cerca di essere attenta,
premurosa, disponibile, più lui interpreta ogni sforzo come insufficiente.
È un gioco perverso in cui la donna perde terreno fino a smarrire la percezione dei propri confini.

E quando la gelosia patologica si radica, spesso si accompagna a un’altra narrazione tossica:
la narrazione del possesso.
La donna viene definita, descritta e considerata come “sua”.
Un suo bene, un suo diritto, una parte del suo stesso valore.
E quando una persona viene percepita come proprietà, il rischio aumenta, perché la perdita della partner — reale o temuta — può essere vissuta come un affronto insopportabile.

È proprio in questa trasformazione — da partner a oggetto da controllare — che la gelosia patologica si converte in minaccia reale.
La relazione non è più uno spazio di scambio, ma un terreno di dominio.
E il partner non è più un compagno: è un sorvegliante emotivo.

Riconoscere questa dinamica è fondamentale.
La gelosia patologica non migliora, non si attenua, non si risolve da sola.
È un segnale precoce di rischio, una porta d’ingresso verso comportamenti sempre più invasivi, soffocanti e potenzialmente pericolosi.

  1. Le ferite invisibili: quando la manipolazione diventa arma e la mente il primo campo di battaglia

La violenza psicologica è la prima forma di abuso. È quella che non lascia lividi sulla pelle, ma incide cicatrici nell’autostima, nella percezione di sé, nella capacità di fidarsi del proprio giudizio.
Prima che arrivi la violenza fisica — se mai arriverà — c’è quasi sempre un lungo periodo fatto di parole che feriscono, sminuiscono, confondono. Un periodo in cui la donna comincia lentamente a dubitare di sé, spesso senza rendersi conto che quel dubbio non nasce spontaneamente, ma è il risultato di un processo di svalutazione continua.

La svalutazione non arriva mai come un attacco diretto fin dall’inizio.
Si insinua con piccoli commenti, magari scherzosi, che però hanno un fondo di critica:
“Non capisci niente”,
“sei sempre la solita esagerata”,
“hai problemi a gestire le emozioni”.
Poi si intensifica. Gli insulti diventano più espliciti, la derisione più frequente, la pazienza più breve. Ogni errore — reale o immaginato — diventa una prova della sua presunta inadeguatezza. Ogni successo viene sminuito, ridimensionato, minimizzato.
La donna comincia a sentirsi “difettosa”, “sbagliata”, mai abbastanza.

La manipolazione psicologica è ancora più subdola.
Non si presenta come violenza: si presenta come “preoccupazione”, come “consiglio”, come “verità oggettiva”.
E invece è un ribaltamento sistematico della realtà, un modo per farle credere che ciò che sente non è valido, che ciò che vede non è reale, che ciò che teme non ha basi. È il territorio del gaslighting, uno dei meccanismi più devastanti e tossici nella dinamica della violenza.
Frasi come:
“Sei troppo sensibile”,
“ti inventi tutto”,
“hai frainteso”,
“stai esagerando”,
“la colpa è tua, se reagisco così”
non sono semplici parole: sono strumenti per cancellare la percezione della donna, per confonderla, per farle mettere in dubbio il proprio ricordo, il proprio sentire, la propria identità.

Il gaslighting è come una nebbia che lentamente avvolge la mente.
La donna, col tempo, non sa più distinguere ciò che è reale da ciò che le viene raccontato.
Non sa più se la sua reazione è legittima o se davvero “sta esagerando”.
Non sa più se l’episodio che l’ha ferita è accaduto come lei lo ricorda o come lui lo racconta.
Questo stato di confusione è il terreno perfetto per la dipendenza emotiva: più lei si sente insicura, più si aggrappa all’unica persona che sembra “darle un senso”, anche se quel senso è manipolatorio, alterato e profondamente distruttivo.

La violenza psicologica è ciclica: a momenti di aggressione seguono momenti di pentimento, scuse, promesse di cambiamento.
È un’altalena che destabilizza e crea un legame emotivo potentissimo perché, dopo la svalutazione arriva la “luna di miele”: lui diventa dolce, comprensivo, amorevole, quasi irriconoscibile.
E proprio questa alternanza confonde la donna, la illude che tutto possa tornare come prima, che forse il problema sia stato solo un momento di tensione, che lui “in fondo non è così”.

Ma la verità è che questo ciclo non è casuale: è un meccanismo di controllo.
Un meccanismo che imprigiona la donna in un continuo tentativo di recuperare la versione “buona” del partner, rinunciando sempre più a sé stessa.
E più lei prova a compiacerlo, più la violenza si radica.

La violenza psicologica è la più difficile da riconoscere, perché non lascia segni visibili.
Ma è anche quella che apre la strada a tutte le altre forme di abuso.
Interrompere questo ciclo richiede consapevolezza, supporto e spesso aiuto professionale.
Perché nessuna donna dovrebbe imparare a sopravvivere a parole che hanno il potere di distruggere ciò che è.

  1. Quando il “basta” diventa una scintilla: la separazione come detonatore della violenza

La fase della separazione è, in moltissime storie di violenza di genere, il momento più pericoloso.
È proprio quando la donna trova il coraggio di pronunciare quella parola semplice e potente — “basta” — che la tensione accumulata esplode. Non perché lei abbia fatto qualcosa di sbagliato, ma perché la sua decisione incrina il cuore del meccanismo di controllo su cui lui aveva costruito la relazione.
Quando un uomo violento percepisce che il dominio gli sta sfuggendo dalle mani, la sua reazione può diventare imprevedibile, estrema, letale.

Per molti uomini abusanti, la fine della relazione non è una scelta legittima della partner, ma una ferita narcisistica insopportabile.
La separazione non viene vissuta come un evento doloroso ma gestibile — come accadrebbe in una relazione sana — bensì come un’umiliazione che intacca il loro valore, la loro identità, il loro potere.
In questo quadro psicologico distorto, la donna non è percepita come un individuo libero, ma come una “cosa” che appartiene loro, che hanno diritto di tenere, controllare, possedere.
E quando l’“oggetto” tenta di allontanarsi, la reazione è quella di un proprietario che teme di perdere ciò che ritiene suo.
È in questa dinamica che nasce l’escalation di violenza.

La fine della relazione può attivare comportamenti pericolosi e ossessivi:

  • ricatti emotivi, in cui lui alterna lacrime, promesse e disperazione per manipolare la sua decisione;
  • minacce velate o esplicite, spesso rivolte non solo alla donna ma anche ai figli, ai familiari, agli animali domestici;
  • stalking e pedinamenti, con un monitoraggio continuo degli spostamenti, delle abitudini, delle persone frequentate;
  • esplosioni d’ira improvvise, scatti violenti, distruzione di oggetti, aggressioni verbali o fisiche;
  • pressioni psicologiche, tentativi di farla sentire in colpa, irresponsabile, egoista, “distruttrice della famiglia”.

In questa fase, il messaggio implicito è chiaro:
“Se non torni da me, ti farò pagare le conseguenze della tua scelta.”

È una minaccia diretta al diritto della donna di essere libera.

La separazione è un atto che toglie all’uomo violento il suo strumento principale:
il controllo.
Per lui, la perdita della partner rappresenta la perdita del proprio potere, del proprio status interno, della propria identità costruita attraverso il dominio.
Questa ferita narcisistica può alimentare un bisogno di ristabilire il controllo con qualunque mezzo — anche con la violenza.

La donna diventa così il bersaglio di una rabbia che non nasce dall’amore, ma dalla frustrazione, dal senso di possesso e dall’incapacità di elaborare il rifiuto.
Spesso lui alterna suppliche disperate a intimidazioni crude, passando in pochi istanti dal “non posso vivere senza di te” al “se non torni, ti rovino”.
È un allarme rosso, un momento in cui il rischio aumenta in modo esponenziale.

Molti femminicidi avvengono proprio qui: nel tentativo della donna di riprendersi la propria vita.
Per questo è fondamentale riconoscere che andarsene è un atto coraggioso ma pericoloso, e che deve essere pianificato con attenzione, supporto professionale e protezione adeguata.
Nessuna separazione giustifica la violenza, e nessun rifiuto è un affronto: è semplicemente il diritto più basilare di una persona.
Ma per alcuni uomini violenti, quel diritto diventa una minaccia insopportabile, e la risposta è una rabbia che non riguarda l’amore, ma il potere.

  1. Prima delle mani, la minaccia: l’escalation nascosta che anticipa la violenza

Le minacce non sono mai parole vuote. Non sono “scatti di nervi”, non sono “esagerazioni del momento”, non sono “frasi dette per rabbia”.
Le minacce sono dichiarazioni di intenti. Sono la forma più esplicita, diretta e pericolosa di controllo psicologico che un uomo violento possa mettere in atto prima di passare ad azioni ancora più gravi.
Frasi come:
“Ti rovino”,
“senza di me non vivi”,
“io senza te non esisto”,
“se mi lasci la paghi”
non sono espressioni di dolore emotivo o di sofferenza amorosa: sono strumenti di terrore.
Servono a intimidire, paralizzare, instillare paura, spezzare la volontà della donna, rendere chiaro che la sua libertà ha un prezzo. E che quel prezzo, se decide di andarsene, potrebbe essere altissimo.

La minaccia è un campanello d’allarme potentissimo, spesso sottovalutato perché non lascia segni visibili.
Ma ogni minaccia contiene un messaggio: “Io ho il potere. E se tu ti ribelli, io reagisco.”

Accanto alle parole, ci sono i comportamenti.
Anche qui l’escalation non avviene mai all’improvviso: è progressiva, crescente, molto spesso prevedibile se si hanno gli strumenti per leggerla.
Lui potrebbe:

  • rompere oggetti, come lanciare un bicchiere, far cadere una sedia, sbattere porte;
  • colpire muri, un gesto che non “sfoga la rabbia”, ma dimostra forza e intimidazione;
  • danneggiare telefoni, chiudere la donna fuori casa, rompere chiavi o effetti personali;
  • fare pressione economica, bloccando carte, rifiutando denaro, impedendo l’accesso alle risorse essenziali;
  • maltrattare animali domestici, una delle forme più crudeli e sottovalutate di intimidazione, perché colpire ciò che la donna ama significa colpirla in profondità.

Questi gesti non sono casuali: sono prove generali della violenza.
Sono modi per capire quanto lontano lui può spingersi senza che la donna reagisca o chieda aiuto.
Sono test psicologici, azioni calibrate per osservare la sua paura, la sua fragilità, la sua resistenza.
E se la donna rimane — spesso perché spaventata, confusa, economicamente dipendente o isolata — l’uomo interpreta la sua permanenza come un tacito permesso, un segnale che può andare oltre.

Ogni escalation merita ascolto, merita attenzione, merita protezione.
Una porta sbattuta oggi può diventare un pugno domani.
Un telefono distrutto può diventare un braccio afferrato con forza.
Un animale ferito può anticipare una violenza fisica imminente.
La violenza cresce quasi sempre a piccoli passi, e proprio per questo è difficile riconoscerla mentre sta accadendo.
Ma una cosa è certa: non regredisce da sola.

Rompere oggetti, urlare, minacciare, controllare, intimidire non sono “momenti di rabbia”: sono indicatori di pericolo.
Ogni donna che vive queste dinamiche ha bisogno — e il diritto — di essere ascoltata e supportata.
Perché una minaccia, ogni minaccia, è un presagio.
E ignorarlo può trasformare il presagio in tragedia.

 

Cosa può fare la terapia online?

La terapia online non sostituisce i servizi d’emergenza e non può sostituire gli interventi immediati necessari quando la donna è in pericolo di vita.
Ma può rappresentare un primo ponte di salvezza, un varco di protezione accessibile anche quando tutto il resto sembra chiuso, lontano, irraggiungibile.
Per molte donne che vivono in relazioni violente, infatti, chiedere aiuto non è semplice: spesso non possono spostarsi liberamente, vivono sotto lo stesso tetto del partner aggressivo, hanno paura di essere viste entrare in un centro antiviolenza, non dispongono di una rete familiare o amicale che possa sostenerle.
In queste condizioni, la terapia online diventa una porta di fuga discreta, silenziosa, ma potentissima.

Uno dei maggiori vantaggi del supporto psicologico a distanza è la possibilità di offrire uno spazio sicuro e protetto, raggiungibile anche dal proprio telefono, magari durante una passeggiata, un’uscita per fare la spesa o un momento in cui il partner non è presente.
È uno spazio dove la donna può finalmente parlare senza sentirsi giudicata, dove può raccontare ciò che vive senza paura che qualcuno la contraddica, la svaluti o la faccia sentire in colpa. Questo primo racconto, spesso sussurrato, è già di per sé un atto di coraggio e un passo importante verso la libertà.

La terapia online permette inoltre di riconoscere con lucidità i segnali di pericolo, quei segnali che la violenza tende a confondere, a minimizzare, a distorcere.
Quando si vive dentro alla relazione, tutto appare più sfocato: la paura si mescola al senso di colpa, l’affetto si confonde con il controllo, la speranza di cambiamento offusca la gravità dei comportamenti subiti.
Uno psicologo può aiutare a mettere ordine nel caos emotivo, restituendo comprensione, parole, significato a ciò che sta accadendo.

Un altro elemento fondamentale è il rinforzo dell’autostima.
La violenza psicologica, fisica o economica è corrosiva: logora lentamente la percezione di sé, riduce la fiducia nelle proprie capacità, fa credere di meritare ciò che si subisce, di essere troppo fragile per andarsene.
La terapia aiuta a ricostruire ciò che la violenza ha distrutto: forza interiore, senso del valore personale, capacità di dire “no”, consapevolezza dei propri diritti e dei propri bisogni.
È un processo graduale, ma è un processo che permette alla donna di recuperare la propria voce, spesso soffocata per anni.

La terapia online può anche essere un’importante occasione per pianificare un percorso di uscita in modo realistico e sicuro.
Gli psicologi possono collaborare con i centri antiviolenza, gli assistenti sociali, le forze dell’ordine e le risorse territoriali, aiutando la donna a valutare i rischi, a comprendere i momenti più pericolosi, a creare un piano concreto per allontanarsi.
Un allontanamento improvvisato può essere rischioso; un allontanamento pianificato può salvare la vita.

Infine, la terapia online offre un accesso immediato al supporto, anche in anonimato, un’opportunità preziosa per chi ha paura di esporsi.
Per molte donne, il primo passo verso la liberazione non è uscire di casa o denunciare: è parlare. Anche solo una volta. Anche solo con qualcuno che finalmente ascolta.

Ma è fondamentale ricordare una cosa: in caso di pericolo imminente non importa dove ti trovi , la priorità assoluta è contattare immediatamente i servizi di emergenza.
In Italia, puoi chiamare il 112 o il 1522, attivo 24 ore su 24 per donne vittime di violenza.
In Francia, le emergenze rispondono al 17 (polizia) o al 15 (sofferenza medica), mentre il 3919 è il numero nazionale dedicato alle donne vittime di violenza.
In tutta l’Unione Europea, puoi sempre comporre il 112, il numero unico di emergenza valido ovunque.
Se ti trovi in un altro Paese, puoi contattare il numero di emergenza locale (come il 911 nei Paesi anglosassoni o il 999/112 nel Regno Unito).

La terapia può sostenere, guidare, accompagnare.
Il salvataggio, quando la vita è a rischio, richiede un intervento immediato e protetto.

 

“La paura parla in sussurri, ma il coraggio nasce quando una donna ascolta quei segnali e sceglie la propria vita: è lì, in quel gesto silenzioso, che comincia la libertà.”

 

Riferimenti Bibliografici:

Stöckl, H., Dawson, M., & Boira, S. (Eds.). (2020). Femicide Across Europe: Theory, Research and Prevention. Bristol: Policy Press.

True, J. (2020). Violence against women: Myths, facts, and feminist interventions. Oxford, UK: Oxford University Press.

Per informazioni scrivere alla Dott.Ssa Jessica Zecchini. Contatto e-mail consulenza@jessicazecchini.it, contatto whatsapp +39 370 321 73 51.

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