Ghosting, Benching e Orbiting: Le Relazioni nell’Era Digitale

Ghosting, Benching e Orbiting: Le Relazioni nell’Era Digitale

Ti sei mai chiesto/a cosa si nasconde davvero dietro comportamenti come ghosting, benching e orbiting nelle relazioni digitali?  Cosa può fare la Terapia Online?

“Le relazioni umane si sono fatte fragili come oggetti usa e getta. Facili da ottenere, facili da rompere, facili da sostituire.”
Zygmunt Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi (2003)

Viviamo in un tempo in cui incontrarsi, conoscersi e persino innamorarsi non è più un’esperienza limitata allo spazio fisico. Oggi le relazioni umane nascono, si trasformano e spesso finiscono attraverso schermi, notifiche, app di incontri e social network, diventando sempre più digitali e sempre meno stabili. Le connessioni digitali sono diventate parte integrante della nostra vita affettiva, spesso sovrapponendosi, confondendosi o sostituendosi a quelle “tradizionali”.

Il nostro modo di connetterci agli altri è stato completamente ridefinito dall’impatto della tecnologia. Tinder, Instagram, WhatsApp, Telegram, Facebook e molte altre piattaforme hanno reso possibile una comunicazione istantanea, potenzialmente continua, teoricamente accessibile in ogni momento. Ma questa immediatezza ha un prezzo.

Nel mondo digitale, le parole arrivano velocemente, ma spesso sono leggere come l’aria: non portano il peso dell’intenzione, della responsabilità, della presenza emotiva. Un messaggio può essere visualizzato e ignorato in un istante. Basta un click per bloccare una persona e farla scomparire dalla propria vita digitale. È possibile dissolversi nel nulla senza dover affrontare il peso di una spiegazione, il disagio di un addio, o la vulnerabilità di un confronto diretto.
Nel mondo digitale, la comunicazione è diventata rapidissima, ma spesso vuota: avviene di frequente, ma senza profondità; è costantemente accessibile, ma raramente autentica.
In un contesto così liquido e sfuggente, costruire legami significativi non è solo difficile: è diventato un atto di coraggio.

La comunicazione digitale è diventata sempre più veloce ma superficiale, frequente ma meno profonda, disponibile ma raramente autentica. In questa cornice, costruire relazioni significative diventa un’impresa. E in questo terreno fertile, nascono e si diffondono nuove modalità di interazione – o meglio, di disconnessione emotiva – che la psicologia sta iniziando a osservare con sempre maggiore attenzione: il ghosting, il benching e l’orbiting.

Questi fenomeni non sono solo curiosità linguistiche o mode passeggere: sono il riflesso di una cultura relazionale che privilegia l’immediatezza sulla profondità, la quantità sulla qualità, l’opzione sulla scelta consapevole. Siamo immersi in una cultura dell’usa e getta emotivo, in cui anche le persone diventano facilmente sostituibili. Quando un legame perde intensità, quando il coinvolgimento spaventa o il disagio affiora, la risposta non è più il dialogo, ma la fuga. Non si chiarisce: si scompare. Non si affronta: si ignora.

Questi comportamenti generano spesso forte confusione emotiva in chi li subisce: perché mi ha cercato, per poi sparire? Perché guarda ogni mia storia ma non mi scrive più? Perché mi tiene lì senza decidere? In mancanza di parole, chi subisce tende a colmare i vuoti con l’ansia, la colpa, la speranza. E questo può avere un impatto profondo sull’autostima, sulla percezione di sé e sulla fiducia relazionale.

Con questo articolo voglio aiutarti a dare un nome a ciò che vivi, a riconoscere questi comportamenti relazionali ambigui, e a comprenderne il senso dal punto di vista psicologico.
Ti parlerò in modo chiaro di ghosting, benching e orbiting, spiegandoti:

  • cosa sono realmente,
  • perché chi li mette in atto lo fa,
  • e soprattutto come puoi proteggerti emotivamente da queste dinamiche che confondono e feriscono.

Perché meritare una relazione sana parte da un passo fondamentale: vedere con lucidità cosa non lo è.

Ghosting: la sparizione emotiva nell’era digitale

Il ghosting è una delle forme più comuni – e più dolorose – di interruzione relazionale nell’era digitale. Con questo termine si intende l’atto di interrompere bruscamente e senza spiegazioni una relazione (di qualunque tipo: romantica, amicale, lavorativa), smettendo improvvisamente di rispondere ai messaggi, alle chiamate, ai segnali dell’altro. In pratica, “sparire nel nulla”, come un fantasma: da qui il nome ghosting.

Ciò che rende il ghosting particolarmente destabilizzante non è solo la fine del rapporto in sé, ma il modo in cui avviene: senza parole, senza chiarezza, senza chiusura. La comunicazione si interrompe in modo unilaterale e improvviso, lasciando l’altra persona in uno stato di sospensione, spaesamento e forte vulnerabilità emotiva.

Dal punto di vista psicologico, chi subisce ghosting può sperimentare una profonda sensazione di abbandono, accompagnata da incertezza (“Ho fatto qualcosa di sbagliato?”, “Si è fatto male?”, “Sta cercando di punirmi?”) e da un progressivo crollo dell’autostima. Il silenzio improvviso viene spesso interiorizzato come un segnale del proprio fallimento personale o della propria non adeguatezza. Le emozioni prevalenti sono dolore, rabbia, vergogna e senso di impotenza, poiché l’assenza di spiegazioni rende impossibile l’elaborazione della fine della relazione.

Secondo la psicologa e ricercatrice Jennice Vilhauer (2015), “il ghosting è particolarmente dannoso perché combina due fattori destabilizzanti: l’interruzione del legame affettivo e la perdita totale di senso rispetto a ciò che è accaduto. Il nostro cervello cerca disperatamente un significato, ma non lo trova. Questo attiva meccanismi di ruminazione, ansia e autoflagellazione”.
📚 (Fonte: Vilhauer, J. (2015). Why Ghosting Hurts So Much. Psychology Today)

Ma perché alcune persone scelgono di comportarsi così? Le cause possibili sono diverse e spesso interconnesse.

In primo luogo, il ghosting può essere espressione di una forte difficoltà a gestire il conflitto: chi sparisce, lo fa spesso per evitare la responsabilità emotiva che comporta affrontare un confronto, spiegare una scelta, sostenere la reazione dell’altro. In tal senso, può trattarsi di una modalità evitante, apparentemente più “semplice”, ma in realtà estremamente disfunzionale e immatura.

In altri casi, alla base può esserci un’immaturità affettiva più profonda: l’incapacità di sostenere relazioni che richiedano presenza costante, trasparenza e coinvolgimento emotivo autentico. Chi pratica ghosting può essere mosso da un bisogno inconscio di fuga non appena percepisce un legame più profondo, vivendo il coinvolgimento come una minaccia alla propria libertà o identità.

Infine, può entrare in gioco una forma di ansia relazionale: chi ghosta teme il giudizio, la delusione dell’altro, o la propria inadeguatezza, e sceglie di scomparire per evitare di affrontare emozioni che sente di non poter contenere. In questo senso, il ghosting può anche essere letto come un sintomo, più che come un’azione deliberata e consapevole.

Qualunque sia la motivazione, il risultato per chi lo subisce è lo stesso: un taglio netto, inspiegabile, destabilizzante, che lascia un vuoto pieno di domande. E quando manca una chiusura narrativa, il dolore tende a cronicizzarsi, alimentato dalla ricerca ossessiva di risposte e dal bisogno, spesso irrealizzabile, di colmare quel silenzio.

Benching: l’illusione dell’attesa nella zona grigia delle relazioni

Se il ghosting è una sparizione improvvisa, il benching è una presenza intermittente e ambigua. Il termine deriva dal linguaggio sportivo: mettere qualcuno “in panchina” (to bench someone) significa tenerlo lì, pronto a entrare in campo ma senza mai davvero farlo giocare.
Nel contesto relazionale, il benching si manifesta quando qualcuno continua a mantenere vivo il legame — con messaggi occasionali, promesse indefinite o segnali ambigui — senza mai esporsi davvero né far evolvere la relazione in modo concreto e trasparente.

Chi subisce benching si ritrova in un limbo emotivo: la relazione non finisce, ma nemmeno inizia davvero. C’è abbastanza attenzione per generare speranza, ma mai abbastanza coinvolgimento per far sentire l’altro veramente scelto.
È uno spazio relazionale fatto di attese silenziose, fantasie future, interpretazioni continue di segnali minimi (un like, una risposta dopo giorni), dove l’altro sembra presente, ma solo quando vuole – e alle proprie condizioni.

Le conseguenze psicologiche del benching sono tutt’altro che leggere. Spesso si manifesta una profonda frustrazione, perché la persona si sente continuamente “quasi” importante, ma mai del tutto. Col tempo, si può sviluppare una forma di attesa cronica, in cui l’attenzione si cristallizza attorno a quella relazione incerta, impedendo l’apertura verso legami nuovi e più autentici.
In molti casi, il benching agisce da amplificatore di dipendenza affettiva: l’intermittenza e l’imprevedibilità del comportamento dell’altro attivano il circuito dopaminico della ricompensa intermittente – lo stesso che alimenta le dipendenze comportamentali, come il gioco d’azzardo.

Come nota la terapeuta americana Lindsay Gibson (2015):

“Le persone emotivamente immature tendono a mantenere gli altri legati attraverso una combinazione di speranza e disorientamento. Ti danno abbastanza per non andartene, ma mai abbastanza da farti sentire amato.”
📚 (Fonte: Gibson, L. C. (2015). Adult Children of Emotionally Immature Parents. New Harbinger Publications)*

Ma perché alcune persone attuano il benching? Una motivazione frequente è il desiderio di mantenere aperte le proprie opzioni: tenere qualcuno “caldo” nel caso serva in futuro, senza però rinunciare ad altri contatti, flirt o opportunità.
In altri casi, il benching nasce da un bisogno costante di validazione: sapere che l’altro è ancora lì, in attesa, disponibile, fa sentire desiderabili e “potenti”, anche se non si ha alcuna intenzione reale di costruire una relazione.

Il problema è che chi viene “messo in panchina” tende a colpevolizzarsi: “forse devo solo avere pazienza”, “magari sta attraversando un momento difficile”, “se mi cerca un po’, vorrà dire qualcosa…”. In realtà, il benching è una forma sottile di controllo emotivo, e riconoscerla è il primo passo per uscire da quella zona grigia in cui la speranza si mescola al malessere.

Orbiting: quando ti guardano ma non ti parlano. La nuova illusione del legame digitale

Nel panorama delle relazioni digitali moderne, l’orbiting è forse uno dei fenomeni più sottili e disturbanti. Il termine deriva dal verbo inglese to orbit, orbitare, e indica una modalità relazionale in cui una persona, pur non cercando alcun contatto diretto con te, mantiene una costante presenza digitale attorno alla tua vita: visualizza le tue storie, mette like ai tuoi post, guarda i tuoi contenuti ma non ti scrive, non ti parla, non ti coinvolge in alcuna interazione concreta.
È una forma di “vicinanza apparente” che genera una distanza reale. Una presenza che sembra dire: “ti vedo, ma non ti scelgo”.

L’orbiting lascia in chi lo subisce una nebbia emotiva difficile da diradare, fatta di dubbi, attese e silenzi. La persona che credeva lontana continua invece ad apparire ogni giorno sotto forma di visualizzazioni, cuori, interazioni passive. Questo comportamento alimenta l’ambiguità: la relazione è finita davvero? È un caso che guardi tutto ciò che pubblico? Sta cercando un modo per tornare? O vuole solo mantenere un potere su di me?
In assenza di parole chiare, la mente cerca spiegazioni e significati, spesso generando false speranze o auto-colpevolizzazioni, rallentando (o impedendo del tutto) il processo di letting go – di lasciar andare davvero il legame.

Dal punto di vista psicologico, l’orbiting interferisce con la chiusura affettiva: è difficile elaborare una fine quando l’altra persona continua a orbitare nel nostro spazio digitale, come un fantasma che non vuole andarsene del tutto. Il risultato è una sensazione sospesa, un’incompiutezza emotiva che può diventare fonte di ansia, attaccamento disfunzionale e stallo relazionale.

Dietro l’orbiting possono nascondersi motivazioni diverse, spesso inconsapevoli e complesse. In alcuni casi, si tratta di una forma inconscia di controllo: restare visibile nella vita dell’altro senza prendersi alcuna responsabilità. In altri, può esserci curiosità: voler sapere cosa fa l’altro, chi frequenta, come sta, senza però esporsi o compromettersi. In altri ancora, prevale la mancanza di chiarezza interna: chi orbita può essere confuso sui propri sentimenti o semplicemente incapace di chiudere davvero una relazione, usando la distanza digitale come via di mezzo tra vicinanza e sparizione.

Come spiega la psicoterapeuta e autrice Esther Perel:

“Nelle relazioni moderne, spesso ci troviamo intrappolati tra due paure: la paura di essere troppo vicini e quella di essere troppo distanti. E allora restiamo a metà strada: non abbastanza presenti da costruire qualcosa, non abbastanza assenti da lasciar andare.”
📚 (Fonte: Perel, E. (2017). The State of Affairs: Rethinking Infidelity. Harper)

L’orbiting, proprio per la sua ambiguità, è un comportamento difficile da identificare come tossico, perché non infrange regole esplicite, non insulta, non abbandona apertamente. Ma ciò che fa è altrettanto insidioso: mantiene viva l’illusione del legame, rendendo difficile voltare pagina e ritrovare il proprio equilibrio emotivo.

Riconoscere l’orbiting come dinamica relazionale passivo-aggressiva è il primo passo per liberarsene. Un like non è una relazione. Una visualizzazione non è una presenza. Un legame, per essere autentico, ha bisogno di parole, azioni e intenzioni, non di ombre digitali che orbitano attorno a ciò che non sono disposte a costruire.

Dietro l’orbiting possono nascondersi motivazioni diverse, spesso inconsapevoli e complesse.

Ferite silenziose: gli effetti psicologici di ghosting, benching e orbiting

A prima vista, ghosting, benching e orbiting possono sembrare episodi relazionali minori, banali incidenti del mondo digitale. Ma sul piano psicologico, il loro impatto può essere profondo, persistente e sottovalutato.
Questi comportamenti, pur diversi tra loro, condividono una matrice comune: l’ambiguità relazionale e la mancanza di chiarezza comunicativa, che lasciano l’altro in uno stato di sospensione affettiva. È proprio questa ambiguità a generare le ferite emotive più silenziose, ma anche più insidiose.

Nel ghosting, il dolore si manifesta come un colpo secco: una sparizione improvvisa che lascia dietro di sé silenzio e disorientamento. Non ci sono spiegazioni, né parole che accompagnano l’addio — solo assenza. E in quell’assenza, la mente si affanna a trovare un senso, il cuore si rifiuta di arrendersi, mentre il corpo risponde con sintomi reali: insonnia, tachicardia, un senso di vuoto che si annida sotto pelle. È una fine senza chiusura, e proprio per questo, più difficile da accettare.

Nel benching, il dolore non è un taglio netto ma una lenta corrosione. È l’attesa che logora, il sentirsi vicini ma mai davvero dentro la relazione. Ci si aggrappa a briciole di presenza, promesse indefinite, messaggi che tengono acceso un filo di speranza. Ma quel filo sottile si trasforma in una gabbia invisibile: l’autostima si assottiglia, mentre prende forma una dipendenza affettiva verso chi c’è ma non davvero.

L’orbiting, infine, è una presenza che non sparisce, ma non si assume alcuna responsabilità. Chi orbita rimane ai margini: guarda, controlla, si fa vedere ma senza mai tornare davvero. È una ferita che non può cicatrizzarsi, perché ogni visualizzazione, ogni like, ogni traccia digitale riapre il dubbio: mi sta pensando, o sta solo controllando che io sia ancora lì?

Sul piano neuropsicologico, tutte e tre queste dinamiche si fondano su interruzioni disfunzionali del sistema di attaccamento. Il nostro cervello, progettato per cercare connessioni coerenti e prevedibili, va in tilt di fronte a comportamenti relazionali ambigui e discontinui.
Come spiega il neuroscienziato e psicologo Louis Cozolino:

“La mente si sviluppa attraverso relazioni prevedibili. Quando queste relazioni sono incoerenti o si spezzano bruscamente, il cervello interpreta l’esperienza come una minaccia alla sicurezza. Il dolore relazionale attiva gli stessi circuiti del dolore fisico.”
📚 (Fonte: Cozolino, L. (2014). The Neuroscience of Human Relationships. Norton)

Gli effetti spesso includono:

  • ipersensibilità al rifiuto,
  • insicurezza relazionale generalizzata,
  • sfiducia nei confronti dell’altro,
  • difficoltà nel riaprirsi a nuovi legami,
  • senso di colpa e autocolpevolizzazione,
  • comportamenti ossessivi o compulsivi nella comunicazione digitale (es. controllare continuamente se l’altro ha visto o reagito).

In altre parole, questi micro-traumi relazionali agiscono in modo sottile ma potente: minano la capacità di fidarsi, creano un terreno fertile per l’ansia affettiva e in alcuni casi lasciano segni simili a quelli di una rottura affettiva importante. E poiché mancano rituali sociali per legittimare questo dolore (non è una “vera relazione”, non c’è stato un addio, nessuno lo vede), chi lo vive spesso si sente incompreso o esagerato, aggravando la sofferenza.

 

Dalla confusione alla chiarezza: strategie psicologiche per proteggersi da chi non ti sceglie davvero

Quando ci troviamo invischiati in dinamiche come ghosting, benching o orbiting, è facile perdere il senso di sé. L’assenza di spiegazioni, la comunicazione intermittente o la presenza digitale ambigua ci spingono verso una condizione di vulnerabilità in cui l’insicurezza cresce, la mente si riempie di interrogativi e il bisogno di conferme può trasformarsi in dipendenza affettiva.
Per questo, diventa fondamentale sviluppare strategie psicologiche di protezione che ci aiutino a riconoscere, regolare e interrompere questi schemi disfunzionali.

La prima strategia è dare un nome a ciò che stai vivendo. Nominare significa riconoscere: “Non è colpa mia, sto subendo una forma di comunicazione passivo-aggressiva”. Dare un nome a ciò che si è vissuto — ghosting, benching, orbiting — è già un primo passo verso la liberazione: significa smettere di sentirsi sbagliati e iniziare a comprendere. Sposta la narrazione dal “Cosa ho sbagliato?” al “Quale dinamica relazionale si sta attivando?”.

La seconda strategia è riconoscere i segnali precoci di ambiguità emotiva. Messaggi vaghi, lunghi silenzi non giustificati, coinvolgimento solo digitale, promesse non seguite da azioni: tutto ciò è informazione. Quando qualcuno è poco presente ma sempre pronto a riapparire, o sembra “interessato ma non troppo”, è importante non romanticizzare, ma osservare con lucidità. Anche nel silenzio, ogni comportamento dice qualcosa: è comunicazione che parla, anche senza parole.

Un altro passo essenziale è ristabilire la centralità del proprio valore personale. Le risposte (o le assenze) dell’altro non sono un riflesso del nostro valore. Non dobbiamo meritarci l’amore a colpi di attesa, pazienza o prestazioni emotive. Una relazione autentica non nasce dall’incertezza, ma dalla chiarezza condivisa e dalla volontà di essere presenti davvero. Coltivare l’autostima significa anche imparare a scegliere chi ci sceglie.

Sul piano pratico, può essere molto utile imparare a porre confini digitali chiari. Bloccare, silenziare, disattivare notifiche non è un atto di cattiveria, ma un gesto di cura verso il proprio spazio mentale. Non è necessario “essere forti” restando esposti alla presenza virtuale di chi ci ha ferito: la forza è anche sapersi proteggere.
Come suggerisce la psicoterapeuta Terri Cole (2021):

“Un confine è un atto di amore verso se stessi: è il modo in cui insegniamo agli altri come vogliamo essere trattati.”
📚 (Fonte: Cole, T. (2021). Boundary Boss: The Essential Guide to Talk True, Be Seen, and (Finally) Live Free. Sounds True)

Anche il lavoro sulla regolazione emotiva è cruciale. Tecniche come la respirazione consapevole, la journaling therapy (scrivere ciò che si prova), il dialogo interiore compassionevole o la mindfulness possono aiutare a gestire l’ansia da attesa e il bisogno compulsivo di controllare il telefono. A livello più profondo, intraprendere un percorso di terapia può fornire strumenti concreti per riconoscere vecchi schemi relazionali (come attaccamenti ansiosi o evitanti) e scegliere consapevolmente relazioni più sane.

Infine, è utile spostare lo sguardo: dalla persona che ci confonde, alla rete di relazioni che ci nutre. Investire nei legami che ci fanno bene, nelle passioni che ci danno senso, nelle abitudini che rafforzano la nostra identità, è il modo più concreto per uscire dalla trappola dell’“aspetto che l’altro mi scelga”.
In fondo, non si tratta solo di proteggersi da chi ci confonde, ma di imparare a scegliere con coraggio relazioni che ci confermino.

Cosa può fare la Terapia Online?

Chi vive esperienze come ghosting, benching o orbiting spesso si trova in uno stato di confusione emotiva e disorientamento relazionale difficile da spiegare, e ancora più difficile da validare. In assenza di “prove” concrete – perché spesso non si è trattato di una relazione ufficiale o di una rottura formale – il dolore viene sottovalutato o ignorato, sia dall’ambiente esterno che dalla persona stessa. Eppure, l’impatto può essere profondo: bassa autostima, iper-analisi dei segnali ricevuti, ansia, ruminazione mentale, difficoltà a fidarsi nuovamente. È qui che la terapia online può rappresentare uno spazio sicuro e trasformativo.

Uno dei primi benefici di un percorso terapeutico è la possibilità di legittimare il dolore vissuto. Il terapeuta aiuta la persona a dare un nome all’esperienza e a comprendere che ciò che ha vissuto non è “esagerazione” o “dramma”, ma una vera e propria forma di disconnessione relazionale che può avere conseguenze psicologiche simili a un abbandono. La possibilità di raccontare la propria storia senza essere giudicato, in un setting contenitivo e strutturato, permette di rielaborare l’accaduto con chiarezza e compassione, riducendo la tendenza all’auto-colpevolizzazione.

In secondo luogo, la terapia consente di ricostruire la narrazione interna della relazione. Il professionista aiuta la persona a uscire dal ciclo di “perché non mi ha più risposto?”, “cosa ho sbagliato?”, e a spostare l’attenzione su come l’altro si è comportato, cosa ha comunicato (anche nel silenzio), e che impatto ha avuto questo sulla propria autostima. Attraverso questo lavoro narrativo, si recupera il potere personale e la capacità di mettere confini emotivi, interrompendo il ciclo della dipendenza affettiva.

La terapia online, inoltre, rende possibile un lavoro profondo ma flessibile. Per molte persone, soprattutto quelle che si sentono vulnerabili, il setting digitale offre una distanza psicologica iniziale che rende più facile aprirsi. Poter accedere al supporto terapeutico dal proprio ambiente domestico può abbattere barriere emotive e pratiche, creando una continuità di lavoro anche nei momenti in cui ci si sente fragili o isolati. La relazione terapeutica online, se ben costruita, può diventare una base sicura da cui partire per ristabilire il senso di sé, soprattutto dopo esperienze in cui si è sentiti invisibili, ignorati o manipolati.

Attraverso il lavoro psicoterapeutico, la persona può anche esplorare i propri modelli di attaccamento e riconoscere se esistono pattern relazionali ricorrenti che la portano a tollerare ambiguità, a inseguire chi è emotivamente distante o a minimizzare i segnali di disinteresse. L’obiettivo non è mai colpevolizzare, ma aumentare la consapevolezza per favorire scelte più sane e protettive in futuro.

Infine, il percorso terapeutico aiuta a ricostruire una progettualità relazionale più autentica. Dopo aver compreso cosa è accaduto, elaborato il dolore e rafforzato l’identità personale, è possibile iniziare a immaginare – e poi creare – legami basati su chiarezza, reciprocità e presenza reale. Perché, in fondo, il lavoro terapeutico non serve solo a curare una ferita, ma anche a riscoprire il diritto a relazioni in cui ci si senta davvero visti, scelti e rispettati.

“Meriti relazioni in cui non devi chiederti se vali abbastanza. Meriti chiarezza, presenza e rispetto. Tutto il resto non è amore, è confusione travestita.”

 

 Riferimenti Bibliografici:

  1. Bauman, Z. (2003). Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi. Laterza.
  2. Vilhauer, J. (2015). Why Ghosting Hurts So Much. Psychology Today.
    https://www.psychologytoday.com/us/blog/living-forward/201507/why-ghosting-hurts-so-much
  3. Gibson, L. C. (2015). Adult Children of Emotionally Immature Parents: How to Heal from Distant, Rejecting, or Self-Involved Parents. New Harbinger Publications.
  4. Perel, E. (2017). The State of Affairs: Rethinking Infidelity. Harper.
  5. Cozolino, L. (2014). The Neuroscience of Human Relationships: Attachment and the Developing Social Brain (2nd ed.). W. W. Norton & Company.
  6. Cole, T. (2021). Boundary Boss: The Essential Guide to Talk True, Be Seen, and (Finally) Live Free. Sounds True.

 

Per informazioni scrivere alla Dott.ssa Jessica Zecchini. Contatto e-mail consulenza@jessicazecchini.it, contatto whatsapp +39  370 32 17 351.

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